Lo sapeva che andava a finire così. Sbaglia sempre uscita e sbuca dalla metropolitana su due strade larghe senza il fruttivendolo in mezzo, punto di riferimento. Di giorno uno si può anche arrangiare, ma di notte è meglio non avere troppo tempo per pensare, non tanto per il freddo, in fondo è appena settembre, quanto per i pettegolezzi che si sentono in giro.
Claude non bada più a certe questioni da condominio, non ascolta più nessuno, ha deciso. Infatti, si è perso. Nasconde pure la cartina, seguendo l’antica abitudine in base alla quale un turista attira statisticamente situazioni ambigue, e comunque s’è perso, per cui non saprebbe che farsene di un supporto che lo aiuti a capire dove andare se non sa dove sta adesso. Gli basterebbe trovare il fruttivendolo che fa angolo con Beverley Road e da lì, non c’è problema, diventa un giro di valzer fino a casa, senza fretta, col naso per aria che segue, sbruffone, le ombre degli alberi.
Si scosta da Church Avenue e un po’ gli dispiace: anche se è buio, la strada mantiene intatto il suo carattere di formicolio umano ed etnico, riproducendo su scala minore quello mastodontico e iperreale del resto della città estesa sull’altra sponda. Eppure, riflette Claude, non c’è nulla di squallido in questo angolo meridionale di Brooklyn, non molto distante dalla mitologia di Coney Island.
Le case basse con le verande e le porte sempre aperte, pochi brownstones, disegnano quello che il pettegolezzo comune, definirebbe senza remore un quartiere tranquillo. Su uno dei bivi si divarica la scelta tra l’ odore sintetico della catena 7 Eleven con le ciambelle fritte, dosatori di caffè, bevande da mungere a volontà e uno dei tanti Deli un po’ indiani un po’ no, con le vaschette da riempire di cibo. Non è la mancanza di scelta la falla dell’America, almeno quando serve fare la spesa.
Claude un giorno rimase incantato davanti alla parete fatta solo di latte, ne cercava uno normale ma alla fine fu stordito dal consumismo e scelse una confezione di latte dolcissimo alla mandorla. Non è consentito inciampare in un gusto amaro, nemmeno per distrazione, nemmeno per un attimo.
Claude ora sta davanti a un ponte che da lontano sembra diramarsi in una tangenziale. No, è l’altro lato. Rifà il giro imbottigliandosi tra i gruppi di pakistani appoggiati al muretto della rotonda e sì, dai che ci siamo, eccolo il fruttivendolo.
Una cosa che gli piace è la gente fuori la sera, non a zonzo, ma fuori seduta da qualche parte che non sia un bar, anche la veranda di casa, o un gradino. È questa, forse, la differenza, tra vivere una stagione nel pieno delle sue facoltà e vederla correre via indispettita, per necessità di geografia. Ora fa il gradasso, tanto si è ritrovato.
Prende una perpendicolare e costeggia Prospect Park: una facciata che pare quella di un tempio mai esistito dà il benvenuto a Claude che non resiste dallo spingersi un po’ in là, se non altro per provare di nuovo la sensazione della prima volta, è questa la giostra americana, lo stupore perpetuo verso ciò che, in apparenza, non ha parenti primitivi e tutto pare crescere in un infinito presente.
Lo scorcio sta sempre là, ha aspettato anche Claude che si ritrovasse dopo essersi perso. Un lago con la sponda di alberi e cespugli, ma con le sfumature che già sanno di autunno e la prospettiva infinita, di orizzonte e di cielo, un riverbero dei lampioni sull’ acqua e qualche animale che ci sguazza dentro. Claude si siede su un sasso. Adesso sto bene, pensa. Anche lui sta seduto fuori, come gli altri che ha visto, che gli piacciono, e spera di suscitare in loro pure lo stesso affetto.
Ogni macchina che sente passare sforna una musica diversa, araba, latina, rap, alternandosi tra loro. Non ci sono nemmeno le frotte di studenti su queste vie, per quelle bisogna salire più su, e viversi il fine settimana in modo più burrascoso, con tutti i cambi metro che in queste giornate accorrono, e già ci si perde così, su un orario ordinato. Il punto è che Claude si è perso, poi si è ritrovato ma qualcuno lo sta ancora cercando, fumando tristezza alla finestra.
Qualcuno che ha messo un foglio su un palo mezzo illuminato: Dove sta Claude? Sto cercando il mio gatto. Segue una descrizione accurata in cui Claude pare abbastanza riconoscersi. Anche se sostiene di essere più magro che nella foto. Non prova nostalgia ma conosce bene la sensazione di sentirsi perso e per empatia quasi umana non gli piace condividerla con altri. Allora si alza dal sasso e riprende la stessa scorciatoia di prima. Ma l’uscita non coincide con l’entrata.
Non è giornata, pensa Claude. Ma è sereno. Tutto ha una fine prima o poi.
Diario americano. Claude si è perso a Brooklyn