Il jihadista. Storia di Irfan Peci
La storia di Irfan Peci è la storia di un ragazzo che arriva a dirigere la sezione in lingua tedesca del network della propaganda di al Qaida, il GIMF (Global Islamic Media Front) ed in seguito viene “assunto” dai servizi segreti tedeschi come agente infiltrato nei gruppi estremisti che ben conosceva. Nato nel 1989 nella cittadina Novi Pazar (Sangiaccato, Serbia) nel 1991 arriva come profugo di guerra nella cattolica Weiden, in Baviera. Una famiglia operaia, semplice, priva di fantasie estremiste, vissuta nella secolare tolleranza della ex Jugoslavia ed esempio di integrazione nella Germania non più divisa da un muro.Come avviene il grande salto nella fascinazione per l’estremismo? Noia? Assenza di prospettive? Ricerca di una identità tra due culture? Nel suo libro “Der Dschihadist- Terror made in Germany. Bericht aus einer dunklen Welt” (Heyne Edizione) curato dai giornalisti Johannes Gunst e Oliver Schröm ed uscito in Germania quest’anno, Peci racconta i lati oscuri di entrambi i fronti vissuti tra il 2006 e il 2008, quello del terrore e quello che lo combatte, a tratti tragicomici, come spesso sono gli aspetti oscuri della realtà.
Per caso e per banalità il viaggio inizia nella terra d’origine, con qualche consiglio di troppo di un cugino e una gita tra le montagne bosniache del villaggio di Gornja Maoča, piccola roccaforte wahabita, non insensibile all’arruolamento di foreign fighters. Almeno un centinaio i combattenti partiti da qui verso Siria e Iraq ma sono numeri che non possono mettere in discussione la moderazione dei musulmani di Bosnia, paese che ha inasprito i tempi di detenzione (fino a dieci anni) per chi parte o recluta combattenti.
Tornato a Weiden Irfan inizia il suo indottrinamento: divora materiale video, letture, inizia a studiare l’arabo, a far suo un mondo di cui ignorava il senso. La sua rete di contatti si allarga, non è difficile: all’epoca la strategia dell’estremismo islamico è ancora agganciata ad una struttura di “cellule” più che ad un’azione individuale, atomizzata, e il “giro” tedesco è in parte ancora in cerca d’autore.
Irfan acquista credibilità, tanto che gli viene affidata la gestione per la Germania del network GIMF, nato come una mailing list nel Giugno del 2001 in uno dei gruppi degli spazi virtuali offerti gratuitamente da Yahoo ai suoi accounters e trasformatosi poi in sito. Il precedessore di Peci è il fondatore del network, l’austriaco, di padre egiziano, Mohamed Mahmoud, in arte Abu Usama al-Gharib, uno che ha proseguito la sua carriera in quel di Palmira.
Alla neonata attività del diciottenne Irfan Peci, formalmente disoccupato, si alternano atti vandalici, il sogno di combattere sul campo lasciando la scrivania ma presto arriva il carcere: undici mesi di isolamento e poi la visita della BKA, la polizia federale della Germania, sotto responsabilità del Ministero degli Interni.
I vecchi compagni sembrano essersi dimenticati di lui, i genitori piangono, su Irfan gravano accuse pesantissime da cui può uscire giocando sporco con gli amici estremisti a favore dello Stato che gli chiede di collaborare in cambio della libertà. In un primo momento i guadagni sembrano essere quelli di un normale part time ma presto si arriva a 3000 Euro mensili, sgravi fiscali e ulteriori incentivi.
Liste di nomi, continue e pericolose recite con familiari e con aspiranti combattenti in nome dell’Islam. Al pericolo si aggiunge la farsa: conflitti di interessi tra gli organi istituzionali coinvolti e le relative competenze, terroristi in erba che si ritrovano in Waziristan per corsi di addestramento con la fobia di ragni e serpenti. Alcuni errori rendono la posizione della spia Peci in pericolo e anche questo capitolo (forse) si conclude. Perché era così attratto dall’estremismo e come è cambiato nel tempo il suo rapporto con la religione?
Inizialmente per me era solo il vero Islam, non estremismo. Oltre ai motivi religiosi c’erano anche delle motivazioni politiche: ero convinto della lotta in favore di uno Stato Islamico. In seguito, durante il mio lavoro come agente la sensazione di incoerenza iniziale ha lasciato il posto alla consapevolezza che quello non poteva essere il vero Islam. Oggi ho certamente un approccio molto più equilibrato verso le questioni religiose.
Nel fanatismo di molti ragazzi, anche senza uno specifica estrazione religiosa come nel suo caso, quale ragione prevale nella scelta di una vita radicale?<
Mancanza di prospettive, ambizione, ricerca di una identità, esclusione e poi certo anche la religione gioca un ruolo.
Si discute spesso sulla presenza di terrorismo islamico nei Balcani, sottovalutando o amplificando la questione. Cosa pensa lei al riguardo?
Ci sono molti campi di addestramento: è una presenza molto forte e pericolosa agevolata dalla difficile situazione economica e la posizione geografica.
Lei è stato in sostanza un attivista di al Qaida. Quali sono le differenze tra la “virtuale” propaganda di Daesh e quella di al Qaida? E quale delle due è più incisiva e pericolosa?
La propaganda di al Qaida cercava consenso anche utilizzando toni “razionali”, logici, per quanto assurdo possa sembrare. Con Daesh assistiamo ad un linguaggio pregno di intimidazioni molto più dirette e rozze, per questo io credo che Daesh è un fenomeno che si estinguerà presto e che come strategia a lungo termine al Qaida ha una maggiore influenza nel mondo islamico.
Possiamo dire, oggi, che lei ha usato lo Stato tedesco e viceversa?
Beh certo, fino a quando ero in prigione era così, poi mi sono reso conto che con quel lavoro potevo prevenire delle tragedie. Naturalmente loro avevano dei buoni motivi nel propormi di collaborare ma per me è stata una libera decisione e questa sensazione anche in seguito non è mai venuta meno.
Non ha paura di ritorsioni, vendette, da parte dei suoi ex compagni che sono a conoscenza della sua precedente doppia vita? Di lei sappiamo che è sposato, vive in una non definita località tedesca e lavora nel campo della vendita di automobili…
Vivere nel pericolo a quel punto non mi è più estraneo. Naturalmente Il mio ruolo come agente è noto nell’ambiente e ci sono anche minacce di morte ma sulla mia vita attuale non posso fornire dettagliate informazioni.
Nel libro descrive un suo viaggio a Berlino in compagnia di altri estremisti e la sua gioia nel vedere un contesto sociale diverso dalla sua cittadina bavarese, dove è maggiore, almeno ad un primo livello, la distanza da una certa islamofobia e che forse non necessariamente ci deve essere qualcosa a cui contrapporsi con odio. L’ha messa in discussione questa percezione?
Difficile odiare le persone che sono gentili con te.
Ha una personale idea di come si possa far fronte a questa piaga dell’estremismo islamico che pare avvolgerci senza fine?
La lotta contro ogni estremismo ha bisogno di prevenzione con dei programmi istituzionali specifici e soprattutto di istruzione.
Ci sono momenti anche grotteschi nella storia che racconta. La visita dell’ex ministro dell’Interno Ehrhart Körting (SPD) alla moschea Al- Nur nel quartiere berlinese di Neukölln, punto di ritrovo di molti salafiti e sotto controllo da parte delle autorità. Körting si ritrova senza volerlo tra i suoi amici sostenitori di al Qaida, perchè il suo motto era quello di parlare con tutti i musulmani. L’altro episodio è che mentre era un infiltrato per non destare sospetti ha fatto una donazione alla causa, elargita direttamente dalle casse della BKA. I soldi del contribuente tedesco sono finiti nelle mani della rete di al Qaida?
Si possiamo dirlo. Il lavoro dei servizi segreti, come si può immaginare, non è sempre compatibile con la legge.
Pubblicato su IlReportage.eu

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