Seul, appunti da un ritorno

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Evviva Seul, ma non sempre

Ritorno a Seul. Quante aspettative può prometterci un posto? Il compito è assolverle o lasciarle andare in via del tutto organica. La prima volta ero in viaggio con uno zaino, ora sono in una sorta di quotidianità con scartoffie, fusi orari, lezioni di coreano e tentativi di creare una vita sociale dentro una città senza fine. Il mio racconto di viaggio collima con rituali simili a qualsiasi persona del luogo o a qualche nomade digitale ansioso e profondamente solo: tutti affascinati da questo stile di vita ma io sto in uno scantinato puzzolente a mandare mail. Mi scrollo di dosso l’orientalismo spiccio che filtra tutto quello che l’occhio vede e penso a quel gruppo in gita di venti italiane dai 20 ai 60 anni, corrose da k-drama e k-pop, notate sull’aereo, pronte a verificare l’esistenza di bellimbusti analoghi e il confine tra mondo posticcio e bieco realismo. Sono finita in una tendenza ma vale la pena decostruirla, come ogni fenomeno umano e paranormale, questa infatuazione diffusa per la Corea del Sud.

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